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venerdì 28 ottobre 2016

Influenze culturali e peculiarità dei linguaggi figurativi tra Tarda Antichità e Alto Medioevo

Una recensione per  “Arte altomedievale” di Ernst Kitzinger


Il mio primo “incontro” con il grande studioso tedesco Ernst Kitzinger è avvenuto quando per motivi di studio ho letto l’importante volume Il culto delle icone. L’arte bizantina dal cristianesimo delle origini all’Iconoclastia[1] e successivamente l’ancora oggi fondamentale  Alle origini dell’arte bizantina[2]. Già da allora avevo apprezzato lo stile di Kitzinger, così lineare, comprensibile e sintetico pur mantenendo quella scientificità e serietà indispensabili quando si tratta una disciplina così complessa come la storia dell’arte.
Il medesimo stile emerge anche da Arte altomedievale, traduzione italiana del volume Early Medieval Art in the British Museum pubblicato per la prima volta nel 1940. Come suggerisce il titolo originale questo volume nelle intenzioni  non vuole essere un manuale di storia dell’arte dell’Altomedioevo bensì una breve ma al contempo corposa introduzione ai linguaggi artistici di quel periodo storico attraverso le opere custodite nel celebre museo londinese.

 Chi studia l’arte medievale sa benissimo che quei linguaggi e stili non nacquero all’improvviso ma furono il risultato di evoluzioni e cambiamenti avvenuti nella Tarda Antichità. Lo studioso tiene infatti a sottolineare che tale periodo, liberatosi dal pregiudizio di epoca decadente, si è rivelato in realtà di estrema importanza in quanto costituisce «il punto di partenza per quel processo di trasformazione attraverso il quale lo stile classico dei Greci e dei Romani mutò nello stile astratto e trascendente del Medioevo»[3].
 Il primo capitolo è dedicato all’analisi dei complessi processi evolutivi dell’arte tardoantica e paleocristiana  evidenziando soprattutto i rapporti tra Cristianesimo e Paganesimo che si rivelano qualcosa di più che un conflitto come spesso si tende a credere [4]. I prestiti dell’arte classica si trovano anche in quelle raffigurazioni di temi cristiani per i quali non esistevano precedenti nell’arte pagana come la Resurrezione di Lazzaro o l’entrata di Cristo a Gerusalemme. L’arte cristiana fin dalle origini aveva fatto uso dell’arte figurativa esclusivamente in maniera simbolica mentre ad un certo punto iniziarono ad essere realizzati dei veri cicli narrativi con le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento. Si noti ad esempio una delle prime rappresentazioni della Crocefissione di Cristo su una placca in avorio del V secolo: la scena è arricchita da dettagli come la borsa con i denari ai piedi di Giuda impiccato mentre i corpi, seppur tozzi, sono vigorosi e le membra sottolineate dai panneggi ben definiti.
La Crocefissione, dalle scene della Passione intagliate  su quattro placche in avorio, inizio V secolo.


Di estrema importanza è altresì la penetrazione a Roma nel III e IV secolo d.C. dell’arte delle province che Kitzinger definisce sub-antica e che, nonostante le differenze tra i luoghi, ha come tratti peculiari un’astrazione ed una stilizzazione sconosciuti all’arte classica che invece tendeva al naturalismo. Dalle province questo stile penetra e s’impone a Roma diventando poi l’arte ufficiale tant’è che è possibile cogliere il carattere trascendentale e volutamente anti-naturalistico in alcune placche d’avorio raffiguranti apoteosi di imperatori o di consoli.
Nell’analisi di queste evoluzioni stilistiche Kitzinger non può non fare riferimento anche a Costantinopoli dove gli artisti cercano invece di conferire alle loro opere un’eleganza ed una maestosità classiche non riuscendo tuttavia ad attenersi fedelmente ai principi naturalistici. 

       Placca in avorio con l'apoteosi di un imperatore, tardo IV secolo.

Il secondo capitolo è dedicato alla produzione artistica nel periodo dell’impero carolingio. 
Kitzinger inizia con una chiara descrizione dei tratti peculiari dell’arte nordica pre-carolingia, completamente differente da quella mediterranea, costituita soprattutto da oggetti come fibule ed else di spade riccamente ornati da motivi dalle forme più diverse e complicate.
La diffusione in quelle terre del Cristianesimo permise i contatti con  i paesi del Mediterraneo con importanti conseguenze nell’ambito della produzione artistica. Grazie ai monaci missionari, infatti, ebbe modo di diffondersi l’arte della miniatura che tuttavia si distinse da quella mediterranea proprio per quel risalto, tipicamente nordico, conferito agli ornati: ne è uno straordinario esempio l’Evangelario realizzato a Lindisfarne dove sulla pagina è stesa come un tappeto una ricca e complicata decorazione fatta di intrecci, motivi geometrici ed animali fantastici.

Dall'Evangelario di Lindisfarne, Northumbria, tardo VII secolo.

È noto che il punto di riferimento per la politica imperiale di Carlo Magno era Roma, non a caso si parla spesso di un revival della cultura classica. Kitzinger ci fa comprendere però che tale revival non deve essere inteso come una semplice imitazione di modelli classici da parte degli artisti del Nord: essi infatti appresero il naturalismo ed il realismo mediterranei creando immagini fortemente espressive.
L’interpretazione dei modelli mediterranei da parte degli artisti del Nord portò a risultati differenti tant’è che sorsero diversi luoghi di produzione, conosciute come scuole, ognuna con uno stile ben definito e che lo studioso tedesco esamina scrupolosamente evidenziandone le principali caratteristiche: si pensi ai miniatori di Reims e il gruppo di Liutardo fortemente influenzati da modelli mediterranei orientali, primo fra tutti Bisanzio, e la scuola di Ada che guarda anche ai modelli occidentali come le coeve pitture murali italiane.
Gli artisti nordici tuttavia non si limitarono all’imitazione di modelli classici e mediterranei, col tempo infatti impararono ad interpretare tali modelli secondo il proprio stile che si può definire tipicamente medievale proprio per quella ricchezza del linguaggio e  per l’interesse mostrato più per l’astrattezza che per l’armonia e l’ordine classici. Un esempio cogente è dato dal magnifico Cristallo di Lotario dove, attraverso una serie di figurine animate, è narrata la Storia di Susanna e i Vecchioni.
Cristallo di Lotario con la Storia di Susanna e i Vecchioni, arte carolingia, 843-869.


Nel terzo capitolo Kitzinger esamina la situazione artistica  dei secoli X e XI partendo da Bisanzio che nel X secolo raggiunge un periodo di rinascita culturale grazie agli imperatori macedoni. Ancora una volta Bisanzio non tradisce il suo ruolo di custode della tradizione antica, lo dimostrano infatti alcune placche eburnee il cui stile è testimone di una cultura che non aveva mai smesso di studiare i modelli classici. Al contempo l’arte di Bisanzio si arricchisce di nuove suggestioni acquisendo quella ieraticità che sarà poi un tratto distintivo e che si coglie soprattutto nelle icone oltre che nelle opere in avorio. Anche l’arte manoscritta risente di questi sviluppi e lo si nota dagli elementi architettonici che perdono la loro consistenza perdendosi nel vuoto dei fondi oro.


L'evangelista Luca, da un Evangelario greco, X secolo.

Per l’Occidente invece la situazione si mostra  più complessa poiché in seguito al crollo dell’impero carolingio sorsero le singole nazioni dove si elaborarono stili diversi a seconda dei gruppi e delle scuole. Anche in questo caso Kitzinger si rivela abile nel delineare una “mappa geografica” degli stili sottolineando come Germania ed Inghilterra svilupparono e trasformarono il retaggio culturale carolingio codificando un linguaggio ben preciso mentre la Francia continuò a riprendere modelli carolingi subendo influenze inglesi, ottoniane ma anche spagnole.
Di particolare interesse in questo capitolo è, a mio parere, la parte dedicata all’Italia e la Spagna la cui produzione artistica presenta un linguaggio sostanzialmente differente rispetto a quello dei paesi del nord Europa. Gli esempi più cogenti provengono ancora una volta dalla miniatura: per quanto riguarda l’Italia, un’illustrazione con Adamo ed Eva di un Exultet realizzato a Montecassino nella seconda metà dell’XI secolo mostra chiaramente come l’artista avesse guardato a modelli classici e paleocristiani, modelli che poi si erano tramandati anche nella pittura. Si noti come l’artista abbia realizzato le due   figure con una morbidezza ed una agilità sorprendenti che Kitzinger giustamente spiega anche attraverso un rapporto culturale con Bisanzio.
Gli stessi modelli influenzarono anche la Spagna ma non furono i soli. Con la conquista degli Arabi nell’VIII secolo la cultura spagnola assorbì elementi provenienti da una cultura che si potrebbe definire opposta a quella classica: le figure divengono puro ornamento e non sono disposte in uno spazio realisticamente reso ma in una profusione di decori ed iscrizioni.

Miniatura con i Quattro Cavalieri dell'Apocalisse, dal Beato di Silos eseguito in Spagna per l'abbazia di Santo Domingo di SIlos tra il 1091 e il 1109.

In questi due secoli in Occidente ci fu un fattore importante per lo sviluppo dell’arte nei secoli successivi e cioè la crescente influenza che la Chiesa stava progressivamente conquistando. L’arte ebbe in questo un ruolo considerevole poiché fu per la Chiesa uno strumento per avvicinare il fedele: da qui la monumentalità dell’arte romanica, argomento a cui è dedicato il quarto ed ultimo capitolo. Essendo questo volume anche una guida alle opere del British Museum, in questo capitolo non si parla di arte romanica attraverso le chiese: Kitzinger tuttavia riesce magistralmente a far comprendere al lettore il carattere maestoso dell’arte romanica prendendo in esame manufatti artistici di piccole dimensioni come gli straordinari scacchi eburnei dell’isola di Lewis, così piccoli ma dalle espressioni sorprendentemente vive oppure il coperchio di turibolo in bronzo dorato che nelle intenzioni dell’artista doveva riprodurre la Gerusalemme Celeste.

Scacchi  dell'isola di Lewis, avorio di tricheco, Inghilterra o Scandinavia, XII secolo.

L’arte romanica dunque ebbe la capacità di riunire le tendenze stilistiche che nei secoli precedenti avevano dato vita a linguaggi diversi: «le figure romaniche sono meno eteree: il trascendentale era stato fatto diventare concreto.» [5]

Arte altomedievale di Ernst Kitzinger si presenta  come un'utile introduzione agli sviluppi artistici di questo particolare ed interessante periodo storico. Sebbene sia un volume piuttosto breve gli argomenti non sono trattati in maniera superficiale: le dinamiche, gli sviluppi e gli intrecci culturali sono ben esposti e riescono a configurare un panorama storico-artistico dell'Occidente Europeo e di Bisanzio di chiara lettura. 


[1] Firenze 1992
[2] Milano 2004. Traduzione italiana (a cura di Maria Andaloro e Paolo Cesaretti) di Byzantine Art in the Making. Main lines of stylistic development in Mediterranean Art 3rd-7th Century, London 1977.
[3] E. KITZINGER, Arte altomedievale, a cura di Fabrizio Crivello, Einaudi, Torino 2005, cit., p. 4.
[4] Sull'argomento si veda anche il fondamentale testo di A. GRABAR, Le vie dell'iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, a cura di Mauro della Valle, Jaca Book, Milano 2011.
[5]E. KITZINGERArte altomedievale , cit. p. 126.

martedì 8 dicembre 2015

Alcune rappresentazioni del mese di Dicembre nell'arte medievale (secoli XII-XIII)



Quello dei Mesi è uno temi enciclopedici più affrontati dall’arte medievale ma esso affonda le radici nell’Antichità quando, per rappresentare lo scorrere del tempo si utilizzavano elementi iconografici religiosi ma anche legati all’agricoltura e alle tradizioni popolari. Già nel mondo antico dunque il ciclo dei mesi ebbe una tale fortuna che condusse alla realizzazione di una cospicua produzione letteraria  che trattava proprio questo tema.
Molti di questi testi giunsero al Medioevo grazie al lavoro dei dotti delle cattedrali e dei conventi che nei loro scritti tramandarono il sapere antico: tra le opere dell’Antichità più celebri vi erano le Georgiche di Virgilio e i Fasti di Ovidio che costituiscono un preludio a quella che verrà chiamata poesia dei Mesi, molto sviluppata in epoca tardo-antica e che verrà ripresa in epoca carolingia ed ottoniana, caratterizzata da testi accompagnati da immagini raffiguranti i lavori agricoli legati a ciascun periodo dell’anno. Fondamentale per la definizione dell’iconografia dei mesi in epoca medievale è anche la Bibbia poiché in essa Dio è presentato come Chronokràtor e cioè creatore e ordinatore del Tempo e come colui che permette all’uomo di vivere con le semine e i raccolti, delineando così un rapporto particolare tra attività agricole e religione [1]. 

Sul piano strettamente iconografico, se nell’Antichità le rappresentazioni dei mesi erano caratterizzate da figure frontali, nel Medioevo invece prevarranno figure di profilo dedite all’attività agricola come quelle delle quattro stagioni che si trovano nel De Rerum Natura di Rabano Mauro nella versione illustrata redatta nell’Abbazia di Montecassino.

In questo post mostrerò alcune raffigurazioni del mese di Dicembre, citando alcuni esempi celebri.
Nell’intradosso del secondo arco del Portale Maggiore della Basilica di San Marco a Venezia si svolge uno dei più bei cicli dei Mesi e dei segni zodiacali, realizzato in bassorilievo nel 1230 circa. Il mese di Dicembre è raffigurato come un uomo barbuto intento a sgozzare un maiale che inutilmente cerca di liberarsi. Questa rappresentazione fa riferimento all’importanza che la carne rivestiva nell’alimentazione medievale soprattutto in inverno ma al tempo stesso rimanda a quella che è stata definita la “cultura materiale” del mondo agreste. Il Dicembre marciano inoltre è corredato dal segno del Capricorno raffigurato in alto a destra e da una scena piuttosto emblematica posta in alto a sinistra: si tratta del leggendario Basilisco che morde il seno di una donna che maliziosamente non sembra respingere il gesto. Questa scena è stata interpretata come allegoria della Lussuria che, insieme all’uso della carne, si pensava caratterizzasse in particolar modo il mondo agreste [2].



Il ciclo dei Mesi che si svolge sulla vasca inferiore della Fontana Maggiore di Perugia (realizzata tra il 1275 e il 1278 da Nicola Pisano insieme al figlio Giovanni) è costituito da bassorilievi dove ogni mese è rappresentato da due scene. Nel mese di Dicembre s’incontra di nuovo la scena dell’uccisione del maiale che qui si svolge in due fasi: nella formella a destra un uomo barbuto e vigoroso porta sulle spalle l’animale ucciso mentre gli si avvicina un cane che, scodinzolando verso il padrone, cerca di guadagnarsi un pezzo di carne; nella formella a sinistra invece compare il macellaio intento a sgozzare il maiale (si noti il particolare della bacinella dove si raccoglieva il sangue dell’animale) mentre in alto v’è il segno del Capricorno [3]. Come negli altri mesi della Fontana Maggiore, anche in questa raffigurazione si può cogliere la straordinaria abilità dello scultore nel ritrarre figure piccole  in movimento all'interno di spazi limitati in maniera realistica e naturale, senza forzature.



Il pavimento musivo della Cattedrale di Otranto (seconda metà del XII secolo) ospita anch'esso un ciclo dei mesi (collocato tra il Diluvio Universale e il Giardino dell’Eden), inseriti all’interno di dodici cornici circolari e abbinati ai Segni zodiacali. Anche qui il mese di Dicembre fa riferimento alla macellazione degli animali: in questa raffigurazione tuttavia oltre al maiale compare anche un grosso cinghiale che di fatto è l’animale che l’uomo è intento a sgozzare; si noti anche il centauro armato di arco che sta a simboleggiare il segno del Sagittario [4].




Per quanto riguarda invece la pittura un esempio di raffigurazione di Dicembre è quella del ciclo dei mesi dell’Aula Gotica, nel Monastero dei Santi Quattro Coronati a Roma (gli affreschi sono da datare al quinto decennio del XIII secolo). Anche qui il tema scelto è quello della macellazione del maiale, scena che come a Perugia viene distinta in due fasi : al centro della scena v’è un uomo in ginocchio – purtroppo in stato frammentario – intento a immobilizzare l’animale impugnando un coltello con la mano destra per procedere allo sgozzamento. Sul fondo compare di nuovo l’animale, questa volta però appeso per le zampe posteriori a un’asta orizzontale in modo da essere squartato e quindi ricavarne i diversi prodotti alimentari. Vicino al maiale appeso compare la personificazione del mese, un giovane uomo elegantemente vestito con una veste rossa e un mantello chiaro fermato da una fibbia. L’uomo è assiso su un seggio  - sembra ricordare un imperatore romano (in questo ciclo anche le personificazioni di Gennaio e Agosto sono raffigurate in maniera frontale)  - e con la mano sinistra tiene uno scettro mentre con la destra sembra mostrare all’osservatore il muso dell’animale [5].




[1] M.A. Castiñeiras González, ad vocem Mesi in Enciclopedia dell'Arte Medievale, vol. III, Roma 1997, consultata on-line (http://www.treccani.it/enciclopedia/mesi_(Enciclopedia-dell'-Arte-Medievale)/)




[2] G. Tigler, Il Portale Maggiore di San Marco a Venezia - Aspetti iconografici e stilistici dei rilievi duecenteschi, Venezia 1995, pp. 208-212.




[3] F. Vignaroli, Fontana Vivace. La Fontana Maggiore di Perugia (Le guide di Bellosguardo, 3), Firenze 2003.




[4] C.A. Willemsen, L'Enigma di Otranto: il mosaico pavimentale del presbiterio Pantaleone nella cattedrale, Galatina 1980, pp. 50-52.




[5] A. Draghi, Gli affreschi dell'Aula Gotica nel Monastero dei Santi Quattro Coronati. Una sotira ritrovata, Milano 2006, pp.. 175-176; S. Romano, Il Duecento e la cultura gotica 1198-1287 ca., Milano 2012, pp. 150-151.

venerdì 4 settembre 2015

Dalla ritrattistica tardo-antica alle prime icone del monastero di Santa Caterina del Sinai

Nel mondo greco-romano era tradizione affiggere non solo immagini di divinità ma anche immagini commemorative di personalità che nella loro vita erano state importanti e rispettate. Negli ultimi secoli del mondo antico ebbero una particolare fortuna i ritratti familiari che potevano essere di persone vive e destinati a persone vive oppure ritraevano una persona defunta e in quel caso avevano una funzione commemorativa. Accanto a questa tipologia di ritratti si svilupparono anche i ritratti pubblici che spesso erano destinati a quell'ambiente sociale specifico di cui faceva parte il soggetto raffigurato: in questo caso dunque il ritratto, più che somigliare fedelmente alla persona doveva indicarne l’appartenenza sociale attraverso una serie di attributi ben definiti.
La Tarda Antichità conobbe una rigogliosa produzione immagini, in particolare di ritratti che, come si è appena detto, non si basavano più di tanto sulla rassomiglianza fisica ma insistevano sul rango sociale e sul potere che avevano caratterizzato il personaggio. Tra le immagini più diffuse vi erano quelle degli imperatori – rivestite di valore giuridico poiché sostituivano fisicamente l’imperatore nei tribunali – che erano impresse su diversi tipi oggetti come monete, scettri e sugli abiti dei consoli. Quindi, nel momento in cui si andava a raffigurare un personaggio di particolare levatura sociale, più che sulla rassomiglianza fisica, si conferiva particolare enfasi ai gesti e agli atteggiamenti in modo che da essi era possibile riconoscere ora un sovrano ora un dignitario. Sebbene infatti alla fine del IV secolo i ritratti funerari scomparvero, il loro schema iconografico sopravvisse grazie all’arte cristiana che se ne servì per raffigurare i suoi santi.
 L’arte bizantina inoltre ereditò le tre più diffuse tipologie della ritrattistica antica e cioè la figura rappresentata in piedi, la figura a mezzobusto rinchiusa nel clipeo oppure in una cornice di forma rettangolare .
Per molti padri della Chiesa delle origini la venerazione delle immagini fu vista come un pericolo che ostacolava  il fedele nel suo percorso spirituale. Tuttavia nel corso del IV secolo si diffusero sempre più le immagini volte a celebrare i santi martiri, in grado - secondo Gregorio di Nissa  -  di contribuire all'esperienza sensoriale del fedele: in altre parole quest’ultimo, attraverso le reliquie e l’immagine sarebbe stato capace di trascendere il mondo terreno e avvertire dunque la presenza ‘fisica’ del santo.
I ritratti di personaggi cristiani presentano una connessione più profonda con il mondo pagano. I primi ritratti di santi, di Cristo o della Vergine erano venerati in contesti domestici e spesso si trattava di offerte votive per ringraziare la divinità in seguito ad un evento miracoloso. Tale fenomeno risale all'Antichità quando nei templi greco-romani si depositavano una serie di offerte votive volte a celebrare gli eventi più disparati come una vittoria in guerra o la guarigione dalla malattia.
Di fondamentale importanza per comprendere l’origine stilistica delle prime icone bizantine sono anche i ritratti di mummie, diffusi in Egitto a partire dal I secolo d.C. i cui esemplari più noti sono quelli rinvenuti nel Fayyum . Si tratta di tavolette in legno su cui si realizzavano dei ritratti dei defunti con un’incredibile attenzione per i dettagli fisiognomici  e che poi si ponevano sulle mummie; la tecnica di realizzazione a partire dal IV secolo d.C. fu soprattutto l’encausto e  lo stile riprendeva quello della pittura ellenistico-romana. Ciò che sorprende di questi ritratti è l’estrema cura per i dettagli ma un altro elemento che cattura l’osservatore sono i grandi e profondi occhi che riflettono un senso di tranquillità e pace interiore.
Più nel dettaglio, i tratti peculiari dei dipinti del Fayyum si ritrovano nelle prime icone che infatti presentano un maggiore naturalismo rispetto a quelle dei secoli successivi, mi riferisco infatti alle più antiche icone ritrovate nel monastero di Santa Caterina del Sinai che furono realizzate con la tecnica dell’encausto.




L’isolato monastero di Santa Caterina del Sinai fu costruito per volere dell’imperatore Giustiniano (527-565) anche se le fonti antiche divergono sulla funzione di tale edificio. 
Le icone realizzate prima del 726 d.C. – anno in cui Leone III si pronunciò pubblicamente contro  la venerazione delle icone –  permettono di delineare i caratteri stilistici ed iconografici della prima arte bizantina ma anche di comprendere lo sviluppo dell’icona nei secoli successivi.
Si è pensato che queste icone costituissero dei doni offerti dall’imperatore Giustiniano per il monastero da lui fondato dove però non avevano una precisa collocazione ma erano conservate in una sala per poi essere mostrare sul proskynetarion durante alcune celebrazioni. Le tre icone di cui si parlerà in dettaglio (che sono quella di Cristo, di San Pietro e della Vergine) data la loro dimensione è probabile che trovassero posto sui pilastri o sulle colonne della chiesa.
   Per quanto riguarda l’icona raffigurante Cristo, di particolare interesse sono le mani sottili – una benedicente e l’altra che tiene in mano un Vangelo rilegato ed impreziosito con gemme –   rese con poche ed essenziali linee, quasi in maniera ‘geometrica’. Splendido è il sensuale volto dal luminoso color avorio dove risaltano dei contorni  scuri volti a sottolineare le ciglia degli occhi e il naso, si osservi anche la tonalità grigio-olivastra intorno al collo, sotto la bocca e sotto le sopracciglia e il lieve tono roseo delle labbra e delle palpebre. Il carattere naturalistico è poi conferito anche dai baffi e dalla barba di cui si percepisce un lieve movimento e dai capelli raccolti su di un lato. Se da una parte l’artista è stato abile nel ritrarre la natura umana di Cristo, al contempo è riuscito anche a restituire quella divina attraverso lo sguardo che colpisce per solennità e astrazione. La coesistenza di queste due nature ricalca per Kitzinger  il modo che gli Antichi avevano nel realizzare le sculture delle divinità: in particolare lo  studioso fa un confronto molto interessante tra la suddetta icona e lo Zeus Olimpio di Fidia; secondo Kitzinger infatti l’arte cristiana a partire dal VII avrebbe conosciuto una ripresa dello stile ellenistico attraverso il quale gli artisti avrebbero conferito un’umanità realistica e tangibile anche alle figure divine.
Si noti inoltre che alle spalle di Cristo s’intravede una nicchia con una porzione di cielo stellato che conferiscono spazialità alla composizione.
A differenza delle successive raffigurazioni severe del Cristo Pantocratore, in questa icona il volto è  solenne ma è caratterizzato da una solennità umana e non distaccata, ed esprime una serenità interiore.
Data l’alta qualità si crede che l’icona sia stata realizzata a Costantinopoli, tesi che è rafforzata dal fatto che questa iconografia di Cristo sarà utilizzata come effige per le monete imperiali a partire dal regno di Giustiniano II .
Per quanto riguarda la datazione dell’icona Weitzman propone il VI secolo così come anche Boyd  - secondo quest’ultima  inoltre l’icona riflette la temperie classicista del regno di Giustiniano I – ; Kitzinger , invece, sposta la datazione dell’icona all’VIII secolo, considerandola  coeva all’icona di San Pietro – sempre del Sinai – di cui si parlerà a breve. Per lo studioso non esistono altri esempi  del VII secolo di ritratti così raffinati e realistici.
  

Testa di Zeus - 350-340  a.C., Museum of Fine Arts, Boston (Kitzinger la confronta con l'icona di Cristo del Sinai)

 L’icona della Vergine in trono col Bambino, angeli e santi militari è un vero capolavoro del primo periodo bizantino e offre inoltre alcuni spunti interessanti soprattutto a livello iconologico.
La Vergine, rappresentata in una posizione ieratica e con sguardo austero, indossa una tunica viola e un maphorion dello stesso colore, le scarpe invece sono rosse, colore che indica regalità. Il suo volto è reso con un tono grigio-olivastro volto a sottolineare la sua divinità e l’astrazione dal mondo terreno così come anche lo sguardo rivolto a destra. Il Bambino è avvolto da una tunica e un mantello color ocra. Ai due lati trovano posto le due figure di santi militari vestiti con abiti sontuosi con decorazioni elaborate e preziose, raffigurati mentre impugnano entrambi la croce dorata del martirio: quello a destra – identificato con San Teodoro – ha capelli e barba scuri e un viso realizzato con una tonalità marrone-rossastra mentre il santo più giovane a sinistra – identificato con San Giorgio o con San Demetrio  – ha capelli chiari e un volto pallido. A differenza del manto della Madonna, più omogeneo e piatto, gli abiti dei due santi militari trasmettono l’idea della tridimensionalità grazie alle pieghe e ai giochi di ombre e luci sulla superficie.
In secondo piano sono rappresentati due arcangeli con i loro caratteristici scettri, avvolti da vesti bianche, mentre guardano in alto verso le mano di Dio da cui parte un raggio di luce che si posa sull’aureola della Vergine. Il biancore che pervade queste due figure è stato impiegato per evidenziare la loro natura eterea e celeste, a differenza dei due santi rappresentati come due uomini reali, quasi come se fossero due dignitari imperiali. Come si è detto per l’icona di Cristo, anche questa riflette quel particolare stile sviluppatosi a Costantinopoli caratterizzato dalla compresenza di una componente ellenistica e di quella astratta. Circa la datazione dell’opera in questione Kitzinger la colloca nella prima metà del VII secolo mentre Weitzman al VI secolo, cronologia accettata anche da Falla Castelfranchi che ha  magistralmente ricostruito il contesto storico-culturale dell’icona. L’icona infatti dovrebbe costituire, insieme a quella del Cristo Pantocratore, un dono che l’imperatore Giustiniano fece in occasione della celebrazione del monastero da lui stesso commissionato. In particolare l’icona con la Vergine sembra essere collegata con la ricostruzione del monastero che fu protetto dalle scorribande barbare grazie ad un presidio militare: allo stesso modo i due santi militari dell’icona proteggono la Vergine col Bambino dalle eresie che in quel tempo imperversavano in Egitto .




Interessante è infine il confronto che è stato proposto tra l’icona della Vergine e l’iconografia della dea Iside (che aggiunge ulteriori risvolti al rapporto con il mondo pagano  nell’arte cristiana dei primi secoli), particolarmente venerata durante l’Ellenismo. In Egitto questa dea era spesso associata al figlio Horus ed era indicata con l’appellativo di Theotokos, termine con cui si indicherà anche la Madonna. Le rappresentazioni di questa dea erano molteplici e in particolare quella col figlio Horus ricorda in maniera sorprendente l’iconografia della Madonna col Bambino. Nell’icona del Sinai si è visto come la Vergine sia assisa su un trono riccamente decorato: il trono è anche un attributo della dea Iside, così come anche il simbolo del suo geroglifico; lo sguardo solenne e rivolto a destra della Madonna ricorda poi alcuni ritratti di Iside risalenti all’età romana, si tratta dello stesso sguardo lontano e distaccato che riflette una condizione sovramondana .
   Di straordinaria qualità è anche l’icona raffigurante San Pietro a mezzo busto, all’interno di una splendida nicchia classicheggiante – su cui si staglia un bellissimo cielo realizzato con diverse striature di blu sino a divenire bianco nella parte superiore – decorata con un fregio dorato. L’apostolo presenta i caratteristici capelli e barba bianchi) ed è vestito alla maniera degli antichi filosofi con una tunica e un mantello grigio-olivastri con diverse sfumature per creare le pieghe del panneggio. In una mano regge le chiavi e nell’altra un’asta cruciforme (con riferimento al suo martirio). Il viso è realizzato con colori caldi che conferiscono alla figura un aspetto naturalistico sorprendente, si noti poi lo sguardo meditabondo e al contempo solenne degno dell’apostolo destinato a porre la prima pietra della Chiesa e a ricoprire il ruolo di primo rappresentante di Cristo sulla terra. La testa di san Pietro è poi circondata da un grande nimbo color giallo-ocra con un bordo bianco e blu scuro.
Al di sopra della nicchia e del santo sono raffigurati tre medaglioni che, come il nimbo di San Pietro, sono di color giallo-ocra con i due bordi bianco e blu scuro. Quello al centro, leggermente più grande, ospita Cristo con i caratteristici tunica e mantello viola, il suo viso è pallido e contrasta in maniera evidente con il viso fortemente realistico di San Pietro. Il medaglione a destra ospita la Vergine che indossa un maphorion marrone mentre i suoi capelli sono raccolti in una sciarpa blu impreziosita con perle. Il medaglione a sinistra ospita invece il ritratto di un giovinetto imberbe dai grandi occhi e dai folti capelli scuri su cui si è a lungo dibattuto circa la sua identificazione: è probabile che si tratti di san Giovanni Evangelista che appare nelle raffigurazioni della Crocifissione a cui rimandano proprio i tre medaglioni.
Per quanto riguarda la datazione e il luogo di produzione Weitzman colloca l’icona tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo e afferma che essa fu realizzata a Costantinopoli dove, più che nelle altre città, era ancora presente la tradizione classica. Per lo studioso infatti l’icona di San Pietro riprende lo stile dei ritratti realizzati nella Tarda Antichità  (per Weitzman la derivazione dell’icona esclusivamente dai ritratti del Fayyum è impensabile) ma riprende anche alcuni elementi dell’iconografia imperiale come aveva già intuito André Grabar quando studiò l’icona allora scoperta da poco. Ad avvalorare questa tesi si prenda infatti in considerazione il dittico eburneo raffigurante il console Anastasio (VI secolo): la composizione, sebbene si tratti di un soggetto laico, ricorda quella dell’icona per via della figura centrale di Anastasio e dei tre tondi in alto che ospitano le teste dell’imperatore, dell’imperatrice e di un uomo che probabilmente è il co-console . Lo schema del dittico eburneo è strutturato in maniera che se ne percepisca il forte simbolismo: il console, raffigurato seduto sotto un baldacchino, riceve il potere direttamente dai sovrani – l’imperatore e l’imperatrice ritratti in alto – e lo condivide con il secondo console. Si noti dunque come tale schema sia ripreso in maniera sorprendente nell’icona dove il significato, seppur passi da quello imperiale a quello cristiano, non cambia: allo stesso modo San Pietro è apostolo e santo per volontà di Cristo e della Madonna e inoltre egli condivide il suo essere discepolo di Cristo con il giovane santo ritratto in alto a sinistra .

Una proposta interessante proviene da Kitzinger che data l’icona al 700 (quando cioè per lo studioso giunge all’apice uno stile monumentale e naturalistico d’impronta ellenistica) ed effettua inoltre un confronto stilistico con gli affreschi romani di Santa Maria Antiqua dove si notano le stesse lumeggiature e lo stesso modo di rappresentare i panneggi .


Sant'Anna - affresco - Prima metà del VII secolo - Santa Maria Antiqua, Roma.



Pietro Perrino


Citazioni bibliografiche:

Per la ritrattistica: 

A. Grabar – M. Della Valle (a cura di), Le vie dell’iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, Milano 2011, pp. 65-91.

K. Marsengill, «Portraits and icons in Late Antiquity», in Transition to Christianity. Art of Late Antiquity, 3rd-7th Century AD, edited by Anastasia Lazaridou, New York 2011, pp. 61-66.

S. Donadoni, E. Coche de la Ferté. Ad vocem «fayyum» in Enciclopedia dell’Arte Antica Treccani, 1960, consultata all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/fayyum_%28Enciclopedia_dell%27_Arte_Antica%29/

Per le icone del Sinai:

 F. Mathews, «Early Icons of the Holy Monastery of Saint Catherine at Sinai» in Holy Image-Hallowed Ground. Icons from Sinai,  catalogo della mostra tenuta al Getty Museum , Los Angeles 2006-2007,  pp.  39-45.

K. Weitzman, The Monastery of Saint Catherine at Mount Sinai, The Icons. Volume one: from the Sixth to the Tenth Century, Princeton University Press, Priceton 1976,  pp. 3-10. 

S.A. Boyd, «Icon of Christ Pantocrator», in Age of Spirituality. Late Antique and Early Christian Art, Third to Seventh Century, edited by Kurt Weitzman, The Metropolitan Museum of  Art , New York, 1979, pp. 527-258.

M. Falla Castelfranchi, « Non solo ˃ellenismo perenne˂  nella pittura bizantina delle origini», in M. De Giorgi, A. Hoffmann und N. Suthor, Synergies in Visual  Culture – Bildkulturen im Dialog, Festschrift für Gerhard Wolf, München 2013, pp. 387-394.

T.F. Mathews, «Early Icons of the Holy Monastery of Saint Catherine at Sinai», pp. 47-48.

E. Kitzinger,  Alle origini dell’arte bizantina. Correnti stilistiche nel mondo mediterraneo dal iii al vii secolo, Milano 2004





domenica 12 aprile 2015

Un edificio paleocristiano nel Salento: Santa Maria della Croce a Casaranello

Voglio parlarvi di un luogo molto suggestivo che ho avuto modo di conoscere dal vivo più o meno un anno fa. Si tratta della chiesa di Santa Maria della Croce a Casaranello, nei pressi di Casarano (Lecce). A mio parere uno dei più splendidi esempi di edificio paleocristiano nel Salento.

L’edificio ha subito due restauri dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici, negli anni ’70 del secolo scorso e nel 2000: in particolare, quest’ultimo restauro si è concentrato sui mosaici e sugli affreschi.
La chiesa nel corso dei secoli si è evoluta e i segni di questa evoluzione si colgono nella facciata, dove in alto si nota un grande arco – adesso tamponato – sotto il quale vi è un grande rosone.
Un elemento architettonico interessante è sicuramente l’abside rettangolare aggettante, si tratta di una forma di abside poligonale largamente attestata sia a Bisanzio che in Terra d’Otranto. Nell’abside poi vi sono tre finestre, caratteristica degli edifici paleocristiani.
Attualmente l’interno è a tre navate con quella centrale coperta da una volta a botte ma non si sa se questa fosse la copertura originaria, tuttavia, se si pensa alla cupola del presbiterio e alla copertura a botte dell’abside in muratura, è possibile che anche la navata centrale presentasse in origine questo tipo di volta (anche perché tale tipologia si riscontra in molti edifici paleocristiani, in particolar modo in Oriente, in Grecia e in Terra d’Otranto).

La splendida decorazione musiva della cupola e della volta a botte dell’abside va collegata alla fase di fondazione della chiesa. Tale decorazione si articola in un registro non figurativo e un registro figurativo (nell’abside è rimasta solo un’aureola che doveva appartenere a Cristo oppure alla Vergine col Bambino) . Il mosaico della volta a botte presenta motivi geometrici – ma anche a squame e intrecciati – e  figure di animali – come volatili e pesci –  tipici delle decorazioni musive pavimentali di epoca paleocristiana. Nella cupola è invece campito un cielo stellato con al centro una croce d’oro mentre i pennacchi sono decorati con eleganti racemi vegetali su un fondo bianco. Si noti come il cielo stellato presenti una gradazione di azzurro in tre tonalità (non si esclude un riferimento trinitario). La studiosa Marina Falla Castelfranchi ha datato la decorazione musiva al VI secolo, periodo in cui nella Terra d’Otranto era fiorente la costruzione di edifici di culto. Bisogna poi aggiungere che si era nel pieno della guerra greco-gotica che fu anche un conflitto di natura religiosa dove l’ortodossia si opponeva all’arianesimo dei Goti.  E in questo conflitto religioso gli edifici di culto rivestivano grande importanza: appare quindi chiaro come la chiesa– da datare alla metà del VI secolo – rappresentasse uno dei  luoghi-simbolo ortodossi.


Bisogna poi pensare che in origine la decorazione fosse estesa a tutto il presbiterio  e che anche il pavimento fosse rivestito di mosaici (nella chiesa è presente un piccolo frammento del mosaico pavimentale rinvenuto durante il restauro degli anni Settanta). La decorazione musiva parietale costituisce un elemento presente in altri luoghi di culto della Puglia come il battistero della cattedrale di Siponto e nel complesso di San Giusto a Lucera, da circoscrivere sempre nel VI secolo.
L’alta qualità della decorazione porta  a pensare che il committente dell’edificio fosse una personalità importante, ma non ci è dato conoscere la sua identità. Al contempo, sfugge anche la funzione di questo edificio, – che si ricorda essere parte della diocesi di Gallipoli – si può forse trattare di una chiesa battesimale.
Al X secolo vanno collocate alcune immagini affrescate di straordinaria bellezza: Santa Barbara, raffigurata come una divinità dalla posa ieratica, con i suoi occhi fissi verso chi guarda, e vestita con sontuosi abiti bizantini – si notino gli orecchini semilunati, nel tipico stile bizantino – e la Vergine col Bambino, anch’essa dalla posa ieratica e che accanto presenta l’ iscrizione in greco che documenta la consacrazione delle chiesa alla Madonna nell'XI secolo.



Al XII secolo risale invece un’ulteriore campagna decorativa, realizzata sulle pareti della navata centrale. Sono arrivate sino a noi delle scene raffiguranti la Passione che stranamente non sono disposte secondo la sequenza destra-sinistra, giacché le prime si trovano sulla parete sinistra. Gli affreschi sono di grande qualità, attestando quindi l’abilità delle maestranze locali che non sempre si attenevano alle regole dell’iconografia bizantina, cercando invece di apprendere dalle esperienze maturate nel contesto in cui operavano. Durante la realizzazione di questi affreschi, era in corso la ridecorazione dell’abside ad opera di un artista legato ancora a stilemi bizantini ( si tratta di un pannello raffigurante una Deisis che è stato poi staccato e posto sulla parete perimetrale della navata destra).

I restauri del  Duemila hanno attestato che a questo ciclo cristologico si sia sovrapposto un ciclo di epoca tardo-sveva  che illustra i martiri di Santa Caterina e Santa Margherita che, come ricorda Falla Castelfranchi, erano particolarmente venerate proprio in questo periodo; è quindi probabile che affianco a quello della Theotokos, si fosse poi aggiunto, durante il XIII secolo, il culto delle due sante.


Riferimento bibliografico:
Marina Falla Castelfranchi, La chiesa di Santa Maria della Croce a Casaranello, in Puglia Preromanica, a cura di Gioia Bertelli, Milano, 200, pp.161-175.

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sabato 11 aprile 2015

La ‘Madonna della Catena’ nella chiesa di San Silvestro al Quirinale: cenni sull’iconografia e sugli interventi di restauro

Si presume che la chiesa di San Silvestro al Quirinale sia stata fondata nel XII secolo, giacché l’edificio è menzionato per la prima volta nel Liber Censuum di Cencio Camerario con il titolo de Biberatica. L’ aspetto cinquecentesco della chiesa – che fu ricostruita nel 1524 e successivamente ampliata – è stato alterato dai lavori di allargamento e di abbassamento della via XXIV Maggio, avvenuti nell’Ottocento.
Nella seconda cappella a destra della chiesa si trova un’icona medievale raffigurante una Madonna con Bambino secondo l’iconografia della Virgo lactans
Icona raffigurante la Madonna della Catena - XIII secChiesa di San Silvestro al Quirinale, Roma.
La Vergine, dalla forma allungata e dallo sguardo fisso, campeggia su un fondo completamente dorato e indossa un manto blu che le copre anche il capo. Con una mano porge un seno al Bambino che indossa una tunica rossa e un manto dorato dalle caratteristiche pieghe ‘a pettine’. Un particolare interessante riguarda le aureole decorate, con croci   quella del Bambino e a rosette quella della Madonna, realizzate attraverso un’attenta e minuziosa lavorazione a rilievo con la tecnica dello stampo. Dei due angeli raffigurati in alto restano i busti con le vesti dagli ampi panneggi e le ali colorate. L’autore di questa icona ha saputo creare un abile gioco di luci e ombre, donando spessore al viso stilizzato della Vergine grazie all’uso di toni scuri sotto e sopra agli occhi, sul naso e sul mento e all’uso sapiente di linee bianche. La stessa tecnica, seppur in maniera lieve, è utilizzata anche per definire i contorni del Bambino.
Grazie a un documento risalente al 1650, è possibile conoscere le vicende di questa icona. Nel 1555  si trovava in una piccola cappella ad essa dedicata – probabilmente quella attuale – da cui, entro il 1581, è stata tolta per essere sostituita da un dipinto raffigurante l’Assunta. Sino al 1640 l’icona è rimasta nella casa dei religiosi per poi essere collocata sopra la porta della sagrestia. Da questo momento la devozione verso questa tavola divenne tale da convincere i padri a riportarla nella cappella ed è in questa occasione che fu realizzata una pala d’altare – che gli studi hanno attribuito a Giacinto Gimignani – con una nicchia in cui essa fu inserita. Tuttavia, il dipinto attuale è soltanto una parte di quello che doveva essere una tavola di notevoli dimensioni.; lo strato di pittura è stato in parte asportato, in modo da adattare il dipinto alla nicchia in cui, come si è detto, fu inserita.
Se l’iconografia è quella della Virgo lactans (o Galaktotrophousa nella tradizione bizantina), perché la tavola è detta della Madonna della Catena? Dietro questo nome c’è una vicenda, avvenuta nel XVII secolo, che vide un giovane perdere il senno e che per questo fu legato ai ceppi per due anni sino a quando guarì grazie all’intervento divino dell’immagine alla quale furono offerte come ex voto le catene. La denominazione ‘Madonna delle Catene’ compare per la prima volta nel testo di Bombelli, il quale associa il miracolo del giovane ad un passo dell’Antico Testamento.
L’iconografia del dipinto si rivela inusuale, soprattutto se si tiene conto della cronologia (soltanto a partire dal XIV secolo infatti,  in Occidente si diffondono tavole con questa iconografia[1]) e dell’area geografica. Nel Lazio, è possibile confrontare questa tavola con la Madonna della Cantina nel Museo Diocesano di Gaeta, risalente al XIII secolo, e la Madonna del Perpetuo Soccorso in Santa Maria dell’Auricola ad Amaseno).
Fu lo studioso Pietro Toesca a collocare per la prima volta la tavola nel XIII secolo, in particolare nei primi decenni mentre studi successivi hanno ipotizzato spostamenti cronologici. Iacobini infatti, la colloca tra gli anni Trenta e Quaranta, cogliendo inoltre delle somiglianze stilistiche con gli affreschi della cappella di San Silvestro nel complesso dei Santi Quattro Coronati.
Negli anni Settanta la tavola ha subito un intervento di restauro da parte di Gianluigi Colalucci con la direzione di Luisa Mortari. Furono applicate delle traverse scorrevoli metalliche per sostituire quelle originali in legno poste dietro la tavola. Fu poi effettuata una sverzatura a  causa delle cattive condizioni in cui versava il legno mentre per la pellicola pittorica – che risultava coperta da ridipinture e da sporco – si effettuarono pulitura, stuccatura e consolidamento del colore.
 Pietro Perrino

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Serena Romano, «La “Madonna della Catena” a San Silvestro al Quirinale», in Il Duecento e la cultura gotica, Milano 2012, pp.125-127, con bibliografia precedente.
[1] Sull’origine dell’iconografia della Virgo Lactans, gli studiosi mantengono aperta la discussione. Si suppone comunque, un’origine copta, bizantina ma anche italiana.


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